Le
difficoltà di apprendimento sono un tema che negli ultimi anni è salito in
primo piano per tutti coloro che si occupano della formazione e dell’istruzione
dei più giovani: insegnanti, genitori, professionisti nelle relazioni d’aiuto,
associazioni educative. Sono aumentate le diagnosi dei disturbi specifici
dell’apprendimento (dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia), in
alcune scuole sono stati organizzati screening a tappeto per la prevenzione di
tali “disturbi”, il tutto accompagnato da una legislazione ad hoc rivolta agli
insegnanti: laddove un bambino risulti “DSA” ci sono strumenti compensativi e
dispensativi da mettere in atto, come ad esempio l’uso della calcolatrice per
la matematica o del computer in soccorso alla scrittura.
L’uso
massiccio di questo genere di etichette ha come conseguenza il perdere di vista
la persona che abbiamo davanti: un bambino caratterizzato dalle proprie
passioni e dalle proprie potenzialità, con necessità personali e bisogni di
spazi propri per esprimersi, propri di qualsiasi bambino. Focalizzarsi sul
disagio non permette di venire incontro a questa vastissima gamma di
sfaccettature necessarie ad una crescita in serenità a benessere.
L’obiettivo di ogni tipo di formazione deve
essere permettere alla persona di raggiungere il piacere di vivere grazie ai
propri mezzi, in “capace autonomia”. Gli strumenti dispensativi e compensativi
non compensano in realtà il bisogno di sentirsi efficiente ed efficace, ma
mettono in una situazione di diversità rispetto ai compagni. Il bambino non è
invogliato a trovare soluzioni proprie, non viene affiancato e accompagnato nel
suo personale cammino di crescita, ottiene soltanto ausili che lo lasceranno
nella sua situazione di svantaggio e inefficacia nei confronti della realtà.
Di
pari passo a questo proliferare di diagnosi si è diffusa anche una buona dose
d’ignoranza generalizzata. Spesso i genitori attribuiscono ad un ipotetico DSA
qualsiasi difficoltà un bambino possa incontrare nel suo percorso scolastico,
annullando in questo modo l’ipotesi e perdendo la consapevolezza che
l’apprendimento è un processo molto complesso, dipendente da molteplici fattori
e quindi risultante di situazioni che possono anche essere totalmente altre
rispetto a deficit fisiologici o disturbi specifici. E’ importante in questi
casi mettersi in ascolto del bambino: la scuola è un canale privilegiato di partenza,
giacché tutti i bambini devono transitarvi e trascorrervi grande parte delle
loro giornate. I campanelli di allarme che possono emergere sono tantissimi; le
difficoltà nell’apprendimento sono messaggi da decifrare. Che cosa c’è che non
va? Cosa il bambino vuole comunicare al mondo adulto? L’osservazione e
l’ascolto sono le prime risposte da offrire al posto di test standardizzati e
anonimi che perquisiscano a tappeto le competenze di vasti range di alunni.
Per
apprendimento si intendono le potenzialità di una persona al fine di trovare
nuove soluzioni più convenienti per acquisire nuove conoscenze e competenze. E’
un dato interiorizzato, stabile, declinabile in modalità diverse, per cui in
continuo arricchimento; se non si è in grado di fare variazioni, non è una
competenza e non è possibile procedere nell’apprendimento. Quando si
riscontrano difficoltà in questo ambito dipendono da uno o più degli elementi
di base divenuti deficitari. I presupposti sono: la motivazione, l’equilibrio
psichico, le aspettative provenienti dall’esterno.
L’assunzione
di un nuovo dato richiede l’equilibrio psico-fisico del soggetto, ovvero una
buona motivazione, una sensazione soggettiva che il dato sia importante o
indispensabile. Nell’adulto la motivazione è in parte razionale in parte
progettuale, mentre nel bambino è essenzialmente emozionale e ludica: ha
bisogno di un affetto che lo muova positivamente in direzione dell’acquisizione
del dato proposto. Perciò questo processo è facilmente inibito alla presenza di
grandi fluttuazioni emozionali, di stati emotivi di ansia o allarme (funzionale
solo se non supera i livelli di guardia). A questo si aggiunge poi la
frustrazione di voler fare qualcosa ma non riuscirci, oppure la mancata
ricezione positiva dal mondo esterno (negli adolescenti, ad esempio, può essere
forte lo squilibrio fra la percezione del proprio operato e quella che invece è
la realtà dei fatti).
Dare
un’etichetta alla presenza di una difficoltà è una soluzione semplice: però la
maggior parte dei disturbi non sono di natura funzionale, hanno bensì la loro
causa nella motivazione. Quest’ultima è influenzata dall’ambiente culturale
dove il bambino vive e cresce, dalle aspettative di coloro che lo circondano,
dalle modalità che gli vengono donate o negate di esprimere il proprio essere
per quello che è.
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